martedì 31 marzo 2015

"SUITE FRANCESE" di Saul Dibb

Non è mai facile portare sul grande schermo un'opera letteraria, specie quando si tratta di un testo come quello di Irène Némirovsky, che racconta i tristi giorni della seconda guerra mondiale in Francia e della Repubblica di Vicky. Lo scritto è rimasto conservato per sessant'anni prima di essere scoperto nel 2004, diventando un caso letterario e un libro misterioso ed affascinante.

Un amore sfortunato, nato nel momento meno opportuno e tra persone sbagliate. "Suite francese" tratta la storia dell'unione sentimentale tra una donna, Lucille, e un ufficiale tedesco, Bruno von Falk. Possiamo considerare la pellicola un incredibile dipinto della barbarie umana, della distruzione e del dolore di cui l'uomo sa essere protagonista assoluto, ma anche del toccante sentimento che lega i due protagonisti, divisi dalla guerra ma uniti dall'amore, dalla somiglianza intellettuale e culturale. Con sapiente regia, Saul Dibb culla lo spettatore in una avventura che non appare né banale né pesante, tanto meno smielata. La donna interpretata da Michelle Williams è oltremodo affascinante perché completamente differente dalle persone che la circondano: non è diventata egoista o avida, non si è fatta corrompere, non è stata toccata dalla vigliaccheria dilagante e non si è mai arresa (al pericolo, alle minacce, alla morte, sia fisica che intellettuale). E' contemporaneamente il simbolo della solitudine e della forza d'animo. 
Anche l'ufficiale Bruno von Falk è una sorta di mosca bianca, elevato rispetto agli altri tedeschi in termini di gentilezza, valori e caratura umana. In questo i due protagonisti si scoprono uguali e uniti, camminano per il piccolo paese francese nascondendo segreti, desideri e passioni. E' notevole la delicatezza con la quale la Williams incarna la figura di Lucille, confermandosi una delle attrici americane di maggior spessore, e l'intensità di Matthias Schoenaerts, che rendono il film toccante e scorrevole, profondo e vero.
Al centro di questo lungometraggio c'è ovviamente il sentimento: quello tra un uomo e una donna, ma anche per la musica e per la libertà. Tutte forme d'amore e di bellezza che riscaldano il cuore e che la stupidità umana ha cercato più volte di sopprimere...per fortuna senza riuscirci.

domenica 29 marzo 2015

"MANHATTAN" di Woody Allen

Un incredibile affresco dell'amata New York, la sintesi della decadenza della società e della vacuità dei rapporti umani di oggi. Manhattan di Woody Allen è un film straordinario per la capacità del regista americano di racchiudere in novantasei minuti tutta la sua arte: con i dialoghi presenti, intellettuali ma anche comici e sottili, viene tolto ogni dubbio (per coloro che ne avevano) sulla bravura di Allen come sceneggiatore.
Il film inizia con uno dei monologhi più famosi della storia del cinema "Capitolo primo: adorava New York, la idolatrava smisuratamente. Ma no, è meglio, la mitizzava smisuratamente, ecco. Per lui, in qualunque stagione, questa era ancora una città che esisteva in bianco e nero, e pulsava dei grandi motivi di George Gershwin...", quale inno d'amore per una città che "era la sua città, e lo sarebbe sempre stata" . Le note della Rhapsody in Blue di Gershwin si fondono con maestria allo skyline di una Manhattan tratteggiata in uno splendido bianco e nero, dal quale è difficile staccarsi. Le immagini della città che si susseguono lungo tutta la durata del film danno una visione poetica di Manhattan che è in grado di scaldare il cuore dello spettatore: belle le scene di vita quotidiana all'inizio, memorabile la vista del Queensboro Bridge nel cuore della notte, incantevole il giro a cavallo a Central Park.
Woody Allen narra le vicende di Isaac Davis (interpretato da lui stesso), commediografo televisivo quarantaduenne che frequenta una studentessa di 17 anni di nome Tracy (Mariel Hemingway). La tranquillità del quartetto composto da loro due e da Yale (Michael Murphy), migliore amico di Isaac, e la moglie Emily (Anne Byrne), viene sconvolta dalla comparsa della bella e intelligente giornalista Mary (Diane Keaton), che fa perdere la testa a Yale prima e Isaac poi. Tra dialoghi divertenti e graffianti (ad esempio "Ebbene io sono all'antica, non credo nei rapporti extra-coniugali. Credo che le persone dovrebbero accoppiarsi a vita, come i piccioni o i cattolici"), diventa sempre più centrale, seppur uscendo di scena, la figura della giovane Tracy, che incarna la "perdente" del gruppo paragonata agli altri ("grandioso, sto uscendo con una che deve fare i compiti"), adulti e di successo in campo lavorativo.
In realtà Tracy è l'unico personaggio del film ad avere dei valori positivi, a possedere una semplicità autentica che le permette di restare nel cuore di Isaac (Woody Allen la mette tra le cose per le quali vale la pena vivere, insieme Groucho Marx, Joe di Maggio, il secondo movimento della sinfonia Jupiter, Louis Armstrong ecc...). Proprio nella scena finale, dopo una corsa attraverso New York, il protagonista si ritrova faccia a faccia con Tracy, pentendosi di averla lasciata preferendole Mary. In questo momento, con un maturità sconosciuta agli altri personaggi, la giovane comunica all'innamorato che sta partendo per Londra e che potranno riparlare di questo solo al suo ritorno...tra sei mesi. Con l'ultima battuta del lungometraggio il regista ci lascia con una nota malinconica e, se vogliamo, con un messaggio di speranza ("Bisogna avere un po' di fiducia, sai, nella gente"), contrapponendo il volto tranquillo e sereno di Mariel Hemingway a quello sconsolato di Woody Allen.
Emblematico il ruolo interpretato da Diane Keaton, giornalista incapace di convivere con la stabilità sentimentale, nervosa e presuntuosa negli sferzanti commenti a grandi artisti (inclusi nella categoria "l'accademia dei sopravvalutati"), troppo lasciva nell'etichettare molte persone intorno a lei come "geni". Frequentatrice assidua di mostre, cene e altri momenti mondani, sempre caratterizzata da un distacco emotivo ed una frenesia assoluta che ne fanno l'adeguata rappresentazione della nostra società.
Da sottolineare le spettacolari immagini del direttore della fotografia Gordon Willis, che fanno della città di New York non solo lo sfondo ma un personaggio attivo in questa bella storia d'amore che fonde il comico con il dramma sentimentale...forse il più grande capolavoro del regista americano.

venerdì 27 marzo 2015

"INTERIORS" di Woody Allen

Un'opera inedita per Woody Allen, un ritratto familiare in cui la risata e la battuta cedono il passo al dramma, al dolore, all'insoddisfazione.
Il film tratta le vicende di una famiglia newyorkese, messa a dura prova dalla separazione dei genitori e la conseguente depressione della madre, Eve. Proprio attorno alla madre, arredatrice di interni, ruotano le dinamiche delle tre figlie, cresciute in un ambiente simile ad un palazzo di ghiaccio. L'amore di Eve viene rivolto principalmente a Renata, protagonista di una brillante carriera letteraria, nonostante questa non si sia mai presa cura della madre nel periodo di difficoltà. A soffrire maggiormente di questa situazione è Joey, donna ossessionata dal desiderio di fare arte e ricevere così la stima e il conseguente amore della madre. Proprio Joey vive in un senso di smarrimento lavorativo, impossibilitata ad essere ciò che vorrebbe (perché senza particolare talento) e incapace di accettare lavori che non la innalzino al rango di artista. Questo tema ha un ruolo centrale nel film, come se Allen avesse voluto sottolineare il peso del talento e della produzione artistica nella vita quotidiana, al punto da far propendere l'affetto di una madre su una figlia piuttosto che su un'altra. Toccando tematiche e sentimenti cari al regista (per esempio il timore della morte), si sviluppano i personaggi dei due compagni delle ragazze, Mike e Frederick, del padre Arthur e della sua nuova compagna (poi diventata moglie) Pearl, e della sorella minore Flyn.
"Interiors" termina con la morte di Eve, una inquadratura delle tre sorelle e del mare finalmente calmo dopo tanti anni di tempesta e un sorriso, accennato ma visibile, sul volto di Joey, come ad evidenziare quanto la figura della madre fosse stata ambivalente, da un lato base del nucleo familiare, dall'altro responsabile dell'instabilità delle figlie.